...perché le pupille abituate a copiare
inventino i mondi sui quali guardare.
inventino i mondi sui quali guardare.
giovedì 13 ottobre 2011
Mr. Bach likes it too...
Bach non se lo sarebbe mai aspettato. Eppure non credo gli dispiaccia. Hanno preso la sua Bourée, l'hanno immersa in un secolo nuovo. Rock, folk, classica, le etichette non importano: la bellezza sopravvive al tempo. Intangibile nella sua eternità, riesce al contempo ad essere misteriosamente ibrida, a mutare il volto senza smarrire l'essenza. L'importante è che i suoi interpreti siano dotati di sensibilità, gusto e quel tanto di follia necessaria per osare. Competenza che non difetta, almeno per i Jethro Tull ...
Perché tutti prima o poi ...
Perché tutti, prima o poi, immaginiamo la nostra morte.
Anzi, la accarezziamo, la pregustiamo, la assaporiamo.
Dolcemente.
Certo per i più queste non sono fantasticherie di tutti i giorni. Sono sogni strani, che sfuggono alla sequela della quotidianità, ma sono comunque incatenati a una qualche forma di ricorrenza; irregolare, ma fatale. Succede, per dirlo con Melville, quando lo spleen ci comanda e la circolazione diventa pure essa irregolare; quando abbiamo bisogno di un ferreo imperativo morale per fissare nelle pupille la gente; quando abbiamo nell'anima "un novembre umido e stillante".
Una fantasia strana, la morte, tessuta di nulla, scaturita da un folle bisogno di attenzione, di un briciolo autentico d'importanza. Tra tutti i sogni questo è quello più egoista. Noi siamo il personaggio mancante, è vero, ma allo stesso tempo siamo pure il regista e lo sceneggiatore. Noi a scrivere le battute, noi a selezionare le inquadrature. E tutte le persone che sappiamo amarci, ma che accusiamo di non mostrarcelo abbastanza, lì intorno a noi, a piangere e piangere, a sentirsi in colpa.
Perverso l'essere che gode dell'altrui angoscia, dell'altrui impotenza ...
Intanto l'inquadratura allucinata scivola voluttuosa tra i volti abbacinati di chi non se lo aspettava, di coloro che se ne fregano. Ma non importa. In qualche modo abbiamo ottenuto la loro attenzione, in qualche modo la loro vita è coinvolta e toccata inesorabilmente, a causa di una nostra azione, anzi della nostra eterna inabilità ad agire.
E così scopriamo nel nostro venir meno un social network inesorabile, che collega all'istante, in un solo sentimento fatto di mille individuali gradazioni, ogni disparato partecipante del mondo a noi circostante, dei tempi che abbiamo solcato. Maestre d'asilo, vecchi amici dimenticati, bulli odiati durante l'infanzia, professori e conoscenti, amori e indifferenze, tutto il nostro scibile di individui e persone a danzare attorno al nostro cadavere. Da morti, non siamo mai stati tanto vivi.
Aggiungerò che questa fantasia ha molteplici varianti. Esiste quella punitiva, ovvero immaginarsi morti per punire qualcuno che ci ha appena offeso e godere dell'altrui sfrenato senso di colpa e naturalmente del singhiozzato riconoscimento di avere avuto torto. Poi esiste quella auto-punitiva, magari per avere per un millisecondo concepito (desiderato?) la morte di una persona cara, oppure per il semplice fatto di sentirsi un verme. Segue la fantasia di morte collettiva, dove assieme a noi periscono persone a noi care e solo pochi a contemplare tale rovina. Questa mi sembra più che altro una variante. E così ad libitum.
Ignoro il motivo di tali ciclici vaneggiamenti, ma ho il sospetto che siano in qualche modo salutari, apotropaici. Il fatto di gettare il nostro sguardo sul nulla che verrà dopo, implica forse la speranza che nulla non sarà, che la vita resterà acquattata dietro lo schermo. Una sorta di rito di espiazione e di rinascita, cui nessuno sfugge.
Perché tutti, prima o poi, immaginiamo la nostra morte.
Anzi, la accarezziamo, la pregustiamo, la assaporiamo.
Dolcemente.
Certo per i più queste non sono fantasticherie di tutti i giorni. Sono sogni strani, che sfuggono alla sequela della quotidianità, ma sono comunque incatenati a una qualche forma di ricorrenza; irregolare, ma fatale. Succede, per dirlo con Melville, quando lo spleen ci comanda e la circolazione diventa pure essa irregolare; quando abbiamo bisogno di un ferreo imperativo morale per fissare nelle pupille la gente; quando abbiamo nell'anima "un novembre umido e stillante".
Una fantasia strana, la morte, tessuta di nulla, scaturita da un folle bisogno di attenzione, di un briciolo autentico d'importanza. Tra tutti i sogni questo è quello più egoista. Noi siamo il personaggio mancante, è vero, ma allo stesso tempo siamo pure il regista e lo sceneggiatore. Noi a scrivere le battute, noi a selezionare le inquadrature. E tutte le persone che sappiamo amarci, ma che accusiamo di non mostrarcelo abbastanza, lì intorno a noi, a piangere e piangere, a sentirsi in colpa.
Perverso l'essere che gode dell'altrui angoscia, dell'altrui impotenza ...
Intanto l'inquadratura allucinata scivola voluttuosa tra i volti abbacinati di chi non se lo aspettava, di coloro che se ne fregano. Ma non importa. In qualche modo abbiamo ottenuto la loro attenzione, in qualche modo la loro vita è coinvolta e toccata inesorabilmente, a causa di una nostra azione, anzi della nostra eterna inabilità ad agire.
E così scopriamo nel nostro venir meno un social network inesorabile, che collega all'istante, in un solo sentimento fatto di mille individuali gradazioni, ogni disparato partecipante del mondo a noi circostante, dei tempi che abbiamo solcato. Maestre d'asilo, vecchi amici dimenticati, bulli odiati durante l'infanzia, professori e conoscenti, amori e indifferenze, tutto il nostro scibile di individui e persone a danzare attorno al nostro cadavere. Da morti, non siamo mai stati tanto vivi.
Aggiungerò che questa fantasia ha molteplici varianti. Esiste quella punitiva, ovvero immaginarsi morti per punire qualcuno che ci ha appena offeso e godere dell'altrui sfrenato senso di colpa e naturalmente del singhiozzato riconoscimento di avere avuto torto. Poi esiste quella auto-punitiva, magari per avere per un millisecondo concepito (desiderato?) la morte di una persona cara, oppure per il semplice fatto di sentirsi un verme. Segue la fantasia di morte collettiva, dove assieme a noi periscono persone a noi care e solo pochi a contemplare tale rovina. Questa mi sembra più che altro una variante. E così ad libitum.
Ignoro il motivo di tali ciclici vaneggiamenti, ma ho il sospetto che siano in qualche modo salutari, apotropaici. Il fatto di gettare il nostro sguardo sul nulla che verrà dopo, implica forse la speranza che nulla non sarà, che la vita resterà acquattata dietro lo schermo. Una sorta di rito di espiazione e di rinascita, cui nessuno sfugge.
Perché tutti, prima o poi, immaginiamo la nostra morte.
lunedì 10 ottobre 2011
lunedì 3 ottobre 2011
Vicino a te.
Ricordi via Roma,
la luna rideva,
lì ti ho scelto e voluto per me.
Mi
guardavi e parlavi
dei volti tuoi strani,
degli occhi cui hai tolto l'età.
dei volti tuoi strani,
degli occhi cui hai tolto l'età.
E ora si scioglie la sera
nei pernod, nei caffè,
nei pernod, nei caffè,
nei ricordi
che abbiamo di noi ...
Vinicio Capossela, Modì
To kill a mockingbird.

E' incredibile poi come alcuni adulti non dimentichino mai di essere stati bambini. Ecco, questa storia è narrata attraverso i ricordi di una bambina, con la voce, l'ingenuità e l'intelligenza di una bambina. Pura poesia, quasi leggerezza, per affrontare un tema difficile e che purtroppo non smette mai di essere attuale, per quanto lo camuffiamo con altri nomi o ideologie. E' vero, proprio per questo è uno dei libri nella top ten di Barack Obama e quando lo comprate in libreria c'è una bella fascetta rossa a ricordarvelo: tipica mossa pubblicitaria che a me generalmente fa scappare la poesia, come si suol dire. Invece è bellissimo, per davvero.
Mi piace inserire citazioni, di solito, quando consiglio la lettura di un libro. In questo caso non lo farò.
Dirò solo: chi ha atteso tanto tempo, come me, per leggerlo, lo faccia al più presto.
giovedì 29 settembre 2011
La vera arte è vita essenziale e la vita essenziale è arte.
"Per dirla in breve tutto ha forma, e ogni forma ha
significato. Cultura è la capacità di riconoscere questa qualità. Se siete
d’accordo con me sul fatto che la religione praticata solo la domenica non sia
affatto religione, allora condividerete anche che godere l’arte solo nei musei,
o usarla come fonte di svago o ricreazione nei momenti di disimpegno non
dimostra alcuna comprensione dell’arte.
Se l’arte è un aspetto essenziale della cultura e della vita, allora non dobbiamo più far sì che i nostri allievi diventino storici dell’arte o imitatori del passato ma, piuttosto, dobbiamo educarli alla visione dell’arte, all’operare artistico e, ancor più, al vivere artistico. Poiché la visione e il vivere artistici sono un vedere e un vivere più profondi – e la scuola deve essere vita – dal momento che sappiamo che la cultura è ben più della conoscenza, a scuola abbiamo il dovere di porre tutte le arti, relegate finora in un ruolo decorativo, al centro dell’educazione, come stiamo cercando di fare al Black Mountain College.
Per mettere a fuoco questo obiettivo, dobbiamo promuovere nella scuola una connessione più stretta, o meglio una compenetrazione, di tutte le discipline artistiche e degli intenti artistici della vita scolastica, e ciò dimostrerà che i problemi sono in gran parte gli stessi in ogni settore delle arti.
Impareremo dall’analogia dei problemi comuni – ad esempio, problemi di equilibrio e proporzioni – che si tratta di questioni che riguardano anche la nostra vita quotidiana.
Mentre si supera il separatismo accademico, a scuola dobbiamo mettere in relazione quanto più è possibile scienza e arte. Non è forse vero, ad esempio, che alcuni periodi storici sono meglio identificati dalla loro architettura o dalla loro iconografia, piuttosto che dai loro conquistatori e dalle loro guerre? E che alcuni costumi ci dicono, spesso, molto di più di tante regine? In generale, la storia dovrebbe considerare la vita più importante della morte e la cultura come una cosa più seria della politica.
[...]
Il nostro obiettivo è lo sviluppo complessivo di un giovane dallo sguardo e dalla mente aperti, che indaghi a fondo i crescenti problemi spirituali del nostro tempo, che non sia refrattario all’ambiente in cui vive e che guardi avanti con la consapevolezza che interessi e bisogni cambiano. Un giovane che abbia sufficiente spirito critico da riconoscere che le cosiddette ‘buone vecchie forme’ talvolta possono essere troppo utilizzate e alcune opere che per i nostri genitori sono capolavori a noi non hanno nulla da dire; un giovane che abbia rispetto per la serietà del lavoro e delle opere, anche se inizialmente potranno sembrargli nuove e strane e che sia capace di sospendere il giudizio fino a quando non abbia le idee sufficientemente chiare per giudicare, consapevole che la propria esperienza, i frutti della sua ricerca e un giudizio indipendente valgono molto di più della riproposizione della conoscenza contenuta nei libri.
Sappiamo che da brevi studi scolastici non possono formarsi critici d’arte competenti. Pertanto, al Black Mountain siamo soddisfatti quando un nostro allievo, ad esempio, riconosce una connessione fra un’immagine moderna e la musica di Bach, o una relazione fra pattern tessili e la musica; o, ancora, se è in grado di distinguere fra la forma-carattere di una brocca di porcellana e quella di una brocca di vetro o di alluminio; o di riconoscere la differenza fra una pubblicità del 1925 e una del 1935; o quando scopre che nell’arte possiamo ancora fare esperienza della rivelazione e della meraviglia.
Vogliamo un allievo che non veda l’arte né come un salone di bellezza né come imitazione della natura, che la veda come qualcosa di più di un ornamento o di un intrattenimento, che la senta come una documentazione spirituale della vita e capisca che la vera arte è vita essenziale e la vita essenziale è arte."
Se l’arte è un aspetto essenziale della cultura e della vita, allora non dobbiamo più far sì che i nostri allievi diventino storici dell’arte o imitatori del passato ma, piuttosto, dobbiamo educarli alla visione dell’arte, all’operare artistico e, ancor più, al vivere artistico. Poiché la visione e il vivere artistici sono un vedere e un vivere più profondi – e la scuola deve essere vita – dal momento che sappiamo che la cultura è ben più della conoscenza, a scuola abbiamo il dovere di porre tutte le arti, relegate finora in un ruolo decorativo, al centro dell’educazione, come stiamo cercando di fare al Black Mountain College.
Per mettere a fuoco questo obiettivo, dobbiamo promuovere nella scuola una connessione più stretta, o meglio una compenetrazione, di tutte le discipline artistiche e degli intenti artistici della vita scolastica, e ciò dimostrerà che i problemi sono in gran parte gli stessi in ogni settore delle arti.
Impareremo dall’analogia dei problemi comuni – ad esempio, problemi di equilibrio e proporzioni – che si tratta di questioni che riguardano anche la nostra vita quotidiana.
Mentre si supera il separatismo accademico, a scuola dobbiamo mettere in relazione quanto più è possibile scienza e arte. Non è forse vero, ad esempio, che alcuni periodi storici sono meglio identificati dalla loro architettura o dalla loro iconografia, piuttosto che dai loro conquistatori e dalle loro guerre? E che alcuni costumi ci dicono, spesso, molto di più di tante regine? In generale, la storia dovrebbe considerare la vita più importante della morte e la cultura come una cosa più seria della politica.
[...]
Il nostro obiettivo è lo sviluppo complessivo di un giovane dallo sguardo e dalla mente aperti, che indaghi a fondo i crescenti problemi spirituali del nostro tempo, che non sia refrattario all’ambiente in cui vive e che guardi avanti con la consapevolezza che interessi e bisogni cambiano. Un giovane che abbia sufficiente spirito critico da riconoscere che le cosiddette ‘buone vecchie forme’ talvolta possono essere troppo utilizzate e alcune opere che per i nostri genitori sono capolavori a noi non hanno nulla da dire; un giovane che abbia rispetto per la serietà del lavoro e delle opere, anche se inizialmente potranno sembrargli nuove e strane e che sia capace di sospendere il giudizio fino a quando non abbia le idee sufficientemente chiare per giudicare, consapevole che la propria esperienza, i frutti della sua ricerca e un giudizio indipendente valgono molto di più della riproposizione della conoscenza contenuta nei libri.
Sappiamo che da brevi studi scolastici non possono formarsi critici d’arte competenti. Pertanto, al Black Mountain siamo soddisfatti quando un nostro allievo, ad esempio, riconosce una connessione fra un’immagine moderna e la musica di Bach, o una relazione fra pattern tessili e la musica; o, ancora, se è in grado di distinguere fra la forma-carattere di una brocca di porcellana e quella di una brocca di vetro o di alluminio; o di riconoscere la differenza fra una pubblicità del 1925 e una del 1935; o quando scopre che nell’arte possiamo ancora fare esperienza della rivelazione e della meraviglia.
Vogliamo un allievo che non veda l’arte né come un salone di bellezza né come imitazione della natura, che la veda come qualcosa di più di un ornamento o di un intrattenimento, che la senta come una documentazione spirituale della vita e capisca che la vera arte è vita essenziale e la vita essenziale è arte."
Josef Albers, ottobre 1935
da un articolo pubblicato su "Progressive Education"
da un articolo pubblicato su "Progressive Education"
venerdì 23 settembre 2011
Abituarsi all'orrore.
Come in un lampo, la lunga, coatta permanenza nella piccola stazione gli fece comprendere i meccanismi dell'uniformazione e del rincoglionimento generale. Annunci pubblicitari iterati e iterati, fino alla nausea dell'infinito, brandelli ossessivi di canzoni, voci disumane snocciolanti il loro credo: "Compra!".
L'aria era satura di decadenza, densa d'assenza di pensiero. L'eco di quelle pubblicità era irresistibile: scendeva nelle profondità dell'anima, imprimeva il suo eterno sigillo sui suoi neuroni innocenti.
Prima non era così. Poi dal nulla queste voci, e nessuno a lamentarsi. In effetti nessuno pareva averle notate e così erano divenute il "normale" sottofondo della piccola stazione.
Tanto radicato da non badarci più, esattamente come la pubblicità tra le pause dei film, che fissiamo a bocca spalancata senza ragione, per forza d'inerzia.
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